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Le soluzioni mini-invasive della chirurgia della parete
La chirurgia della parete è un ambito fondamentale nel trattamento delle patologie che colpiscono la parete addominale. Negli ultimi anni il numero di interventi correlati a queste patologie è in crescita. «Nel 2022, sono stati registrati circa 17.000 pazienti con patologie della parete addominale», afferma la dottoressa Alessandra Saputelli, chirurgo generale e dirigente medico presso la UOC chirurgia generale e d’urgenza presso il Presidio Ospedaliero San Filippo Neri.
Patologie della parete addominale
Le patologie della parete addominale possono essere primitive o secondarie. Le prime si caratterizzano principalmente da ernie ventrali, epigastriche od ombelicali. Le seconde, invece, sono più frequenti. Si manifestano spesso come laparoceli, complicanze post-chirurgiche derivanti da interventi laparoscopici, robotici o a cielo aperto.
Il laparocele, in particolare, può presentarsi in corrispondenza di zone di minore resistenza della parete addominale. Ad esempio, i punti di accesso del trocar. La sua formazione è favorita da fattori come il sovrappeso o comorbilità del paziente.
«Se la fascia non è stata ristrutturata bene oppure se il paziente è aumentato di peso, in presenza di comorbilità importanti, si ha la formazione di laparocele su trocar», aggiunge Saputelli.
Dalla diagnosi al trattamento
Prima dell’intervento di parete vero e proprio, bisogna preparare il paziente in modo adeguato. Si considerano le varie comorbilità presenti. Ad esempio, il fumo, il diabete o problemi respiratori e cardiaci.
«Al San Filippo Neri, abbiamo un protocollo tecnico assistenziale proprio di preparazione all’intervento. Si cerca così di ridurre quelle che sono le complicanze nel pre e nel post operatorio. Ci avvaliamo di fisioterapisti, fisiatri che aiutano il paziente a non utilizzare l’addome nei vari movimenti o nella vita di relazione normale. Ci sono diabetologi, nutrizionista, pneumologo, cardiologo che seguono chi presenta queste varie comorbilità, riuscendo ad arrivare proprio in forma ottimale all’intervento», enuncia la dottoressa.
Generalmente, attraverso una Tac senza mezzo di contrasto, a riposo e dopo ponzamento, si effettua la diagnosi di parete. L’esame consente di valutare l’ampiezza del difetto, il contenuto del sacco erniario e il volume dell’ernia stessa. Sulla base di questi parametri, si sceglie la tecnica chirurgica più adatta, riducendo il rischio di recidive.
Criteri di classificazione dei laparoceli
Le tecniche per la parete addominale variano in base alla tipologia e gravità della patologia. Le ernie più piccole possono essere trattate con approcci mini-invasivi, come la chirurgia laparoscopica o robotica. Per i laparoceli più complessi, invece, soprattutto quelli sopra i 9 cm, la chirurgia open rimane la scelta di elezione.
L’approccio mini-invasivo è più facilmente apprezzabile dal paziente rispetto a un taglio della linea mediana. Tuttavia, non tutti gli interventi possono essere eseguiti con tale tecnica. Succede, ad esempio, nel caso di diastasi di parete sopra i nove centimetri.
«La classificazione dei laparoceli viene distinta in tre grandi categorie: inferiori a quattro centimetri, da quattro a dieci e sopra i dieci centimetri, ossia un disastro di parete. Quest’ultima perde la sua funzione di contenimento del contenuto addominale, la sua funzione di aiuto per il sostegno in posizione eretta del paziente e anche come aiuto nella compliance respiratoria del malato», spiega Saputelli.
Intervenire sulle diastasi con la chirurgia della parete
Benché la diastasi pura sia di competenza del chirurgo plastico, se associata a ernie, l’intervento si esegue con tecniche laparoscopiche o robotiche . Questo dipende dalla localizzazione dell’ernia.
Gli approcci mini-invasivi sono preferiti per trattare simultaneamente la diastasi e l’ernia. «Se l’ernia ombelicale o epigastrica non sono associate a diastasi dei retti, possiamo proporre sia una tecnica open sia una tecnica laparoscopica. Vi è un utilizzo del robot nella patologia di parete, come per l’ernia ombelicale ed epigastrica, ma anche per il trattamento del laparocele in toto. Questo approccio, come nel caso della chirurgia laparoscopica, porta a una riduzione delle comorbilità postoperatorie, più che alla riduzione del tempo operatorio», commenta la dottoressa.
Gli approcci mini-invasivi, oltre a garantire risultati clinici soddisfacenti, offrono importanti benefici psicologici per i pazienti.
L’assenza di grandi cicatrici e la possibilità di un recupero più rapido migliorano la qualità della vita post-intervento. Il paziente tende quindi ad accettare in modo più semplice un intervento se «gli vengono spiegate le tecniche. Un approccio con tre trocar, uno da cinque, e due da dieci, dodici, è apprezzabile più facilmente rispetto a un taglio della linea mediana», continua Saputelli.
L’uso della chirurgia robotica, quando può essere impiegata, rappresenta un’importante innovazione. Permette, infatti, di ampliare le possibilità di interventi mini-invasivi anche in casi complessi dove la laparoscopia tradizionale risulta meno efficace.